Le “piccole patrie” di Adriano Olivetti

"Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell'ingegno e dell'arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura, che dona all'uomo il suo vero potere".

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L’opera di Olivetti – non solo quella letteraria – punta molto in alto e guarda lontano, per proporre «un esperimento di politica nuova, in cui le sane forze di autonomia si sostituiscono all’inerzia degli organi della amministrazione centrale per tentare di risolvere i problemi più gravi della collettività su scala comunitaria». E ne delinea i principi ispiratori e le linee d’indirizzo.

L’uomo che fa la storia

Olivetti - stabilimento Ivrea

Nelle prossime righe c’è la sintesi di una storia. Quella di chi ha provato a coniugare capitalismo e profitto con bellezza, cultura e solidarietà sociale: Adriano Olivetti.
Ingegnere  chimico, erede di una ricca dinastia imprenditoriale con sede ad  Ivrea, di religione valdese ma convertitosi al cattolicesimo nel 1949, antifascista di orientamento azionista ma vicino al fascismo “intellettuale” (quello di Giuseppe Bottai e dell’architettura razionalista), a cui legò i progetti del suo nuovo stabilimento.
Adriano Olivetti, nel dopoguerra, è l’imprenditore-politico che immagina la fabbrica non solo per dispensare profitti ma anche cultura e servizi, come cuore della comunità che realizza un’autentica, concreta solidarietà, così forte da diventare la base di una nuova idea di Stato.

«Voglio che la Olivetti non sia solo una fabbrica ma un modello e uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno libertà e bellezza a dirci come essere felici».

Ecco allora la fabbrica aperta alla luce, in cui gli orari sono ridotti e i salari aumentati. I dipendenti vengono incentivati a studiare e a leggere. I loro figli hanno asili nido e assistenza sanitaria gratuita.

Un cammino di comunità, ispirato ai principi di giustizia ed equità

Comunità

Il progetto di Olivetti mira a realizzare quella che egli chiama «democrazia integrata»: un concetto che attraversa i decenni con sorprendente e vibrante attualità, visto che milioni di italiani continuano ad attendere con ansia un rinnovamento materiale e morale più volte ventilato ma mai davvero attuato.
Fra i rituali della politica e i bisogni e le potenzialità del Paese e del suo popolo continua ad esservi un baratro: Olivetti senza mezze parole scrive di «forze negative», di «struttura cancerosa», di «natura corrotta», di una «classe dirigente guasta per sempre, incapace di solidarietà e marchiata dal cinismo e dalla viltà».

Per risorgere, è necessario un «cammino di comunità», che trova il proprio principio ispiratore nella giustizia, da rileggere nel rapporto fra territori, imprese, lavoratori e politica: «chi opera secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso».
La giustizia, per Olivetti, è innanzitutto equità, «un motivo morale e civile» riassunto nel concetto di «risarcimento reciproco»: un lavoratore «che riceva i mezzi per lavorare ma con la sua forza lavoro ponga l’impresa in condizione di produrre e guadagnare, matura il diritto a un risarcimento economico ma – al tempo stesso – culturale e morale».

Le «piccole patrie»

Intorno a questi concetti si annodano le «piccole patrie» di Adriano Olivetti: una rete di piccole, governabili molecole che convergano – per gradi successivi – in una nuova forma organizzativa del nostro essere Paese.
Ciascuna di queste comunità dev’essere «concreta, visibile, tangibile, né troppo grande, né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori»

Le unità territoriali disegnate da Olivetti hanno il carattere della peculiare fisionomia culturale e di forte autonomia: questo è dunque il mezzo “concreto”, il sentirsi comunità realizzabile soltanto a condizione di nutrirsi di quel senso di appartenenza che soltanto le identità locali possono offrire. Un concetto ancora più vero oggi, quando siamo chiamati a rispondere alle dinamiche attivate dalla globalizzazione.
«Affinché la persona sia libera (…) occorre innalzare un diaframma creativo tra l’individuo e lo Stato». In questa visione, «la comunità sarà strumento di autogoverno, costituito come consorzio di Comuni federato con altri per dare luogo alle Regioni e allo Stato».

La piramide a tre gradini

Mappa delle province

Molto più tardi, Stefano Rodotà definirà questo pensiero come «comunitarismo radicale», perché «richiede la netta priorità della giustizia e della politica sull’economia, e vuol dispiegarsi secondo una gradualità intesa a creare o rafforzare la solidarietà fra le persone nel momento stesso in cui esse si uniscono in formazioni sociali, culturali e politiche di crescente complessità e dimensione».

E’ l’idea di una «piramide a tre gradini, alla stessa guisa dei piccoli cristalli che si aggregano per fare un cristallo più grande, senza mutarsi né deformarsi»: valori della persona e valori della comunità devono bilanciarsi, «riorganizzando l’intera società italiana in vista dell’educazione e del bisogno, imprimendole uno spirito e un vigore nuovi» e assicurando «il trionfo della persona nella comunità».

La troppo breve vita di Adriano Olivetti gli ha impedito di combattere ancora per il suo progetto, di affinarlo, sperimentarlo e fortificarlo. Nelle sue Comunità egli vedeva i mattoni per costruire il grande edificio di una “democrazia integrata” che, partendo dalle nostre tante «piccole patrie» ricostruisse lo Stato e la sovranità popolare ponendo al centro «valori scientifici, sociali ed estetici».
Lette oggi, le sue parole offrono suggestioni forti per nuove aspirazioni: il desiderio di riappropriarsi “dal basso” di forme attive di cittadinanza, la voglia di costruire attorno ai beni comuni e ai beni pubblici una nuova agenda incentrata sulla responsabilità individuale, la solidarietà sociale, la dignità della persona, l’orizzonte dei diritti, l’interesse delle generazioni future, e anche quella “utilità sociale” che detta l’art. 41 della Costituzione.

Abbiamo bisogno anche oggi degli ingredienti che animano l’ambizioso progetto di Olivetti: ansia sperimentale, onestà intellettuale, volontà progettuale, fede negli uomini. Oggi più che mai, abbiamo bisogno del lievito potente che animava il suo agire e che – da allora – gli italiani hanno perso per strada: la speranza.


“Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato.
Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza”

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